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Foto opera in mostra

Giuseppe De Fabris
Marble plaque Mellerio , 1823-1825
Carrara marble
H 108 x 162 x 21 cm
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Questo splendido rilievo in marmo di Cararra, opera di Giuseppe de Fabris, raffigura una giovane donna inginocchiata che, con gesto fiducioso e carico di speranza, alza gli occhi per presentare...
Questo splendido rilievo in marmo di Cararra, opera di Giuseppe de Fabris, raffigura una giovane donna inginocchiata che, con gesto fiducioso e carico di speranza, alza gli occhi per presentare tre fanciulli alla Vergine Maria, la quale tiene sulle ginocchia il proprio Figlio. Allo sguardo supplice che la donna rivolge alla Vergine risponde, in un sottile gioco di occhiate, quello di Gesù che, allargate le tenere braccia, si volge leggermente verso il basso sorridendo amorevolmente ai tre piccoli che lo implorano. Il pannello, sormontato da un elegante frontone arcuato impreziosito da acroteri di gusto classico, finge la fronte di un sarcofago, ma in verità costituiva l’elemento centrale di un imponente cenotafio a parete commissionato allo scultore dal conte Giacomo Mellerio (1777-1847) e originariamente collocato all’interno della cappella di famiglia nella villa brianzola Il Gernetto (Lesmo).
Le tristi vicende familiari del conte Mellerio sono alla base della realizzazione dell’opera e ne determinarono la complessa iconografia. Con un linguaggio forbitamente neoclassico e un’assoluta pe- rizia tecnica Giuseppe De Fabris ha raffigurato ai piedi della Vergine l’ormai defunta moglie del conte, Elisabetta Castelbarco (1784-1808), e i tre figli della coppia morti in tenera età. La funesta circostanza che determinò la commissionare fu, però, l’improvvisa morte nel 1822, all’età di diciassette anni, di Giovannina, l’unica figlia rimasta al conte Giacomo Mellerio. Nel suo insieme, dunque, il monumento doveva commemorare la moglie e i quattro figli del committente.
In una lettera datata 16 febbraio 1825, Mellerio espresse al De Fabris la propria soddisfazione per il completamento dell’opera, che nell’allestimento originario della cappella si trovava a dialogare con due stele, lì collocate tra il 1813 e il 1814, che il conte aveva richieste ad Antonio Canova: una in ricordo della moglie e una di Giovanni Battista Mellerio, lo zio che lo aveva cresciuto dopo che era rimasto orfano e del quale aveva ereditato l’ingente patrimonio.
Sebbene il monumento di Giuseppe De Fabris sia stato smembrato e disperso, il progetto è documentato da alcuni disegni che permettono di ripercorrerne la genesi creativa e visualizzare l’insieme. Un primo studio prevedeva che su un lato del pannello, di formato verticale, una figura maschile seduta - abbigliata all’antica, ma da identificare con il conte Mellerio, sollevasse mestamente il lenzuolo da un letto vuoto, mentre sul lato opposto il lenzuolo veniva trattenuto dalla personificazione della Fede, una donna in piedi solennemente appoggiata ad una croce, chiaramente modellata sulla stessa virtù che Antonio Canova aveva scolpito per il Monumento a Clemente XIII in San Pietro. Nella parte alta del rilievo due angeli trasportavano in cielo la giovinetta defunta.
Un secondo disegno presenta la composizione così come verrà poi realizzata nel marmo: al rilievo in cui compaiono la Vergine con il Bambino e l’immagine idealizzata di Elisabetta Castelbarco in ginocchio che presenta i tre figlioletti, è anteposta la figura a tutto tondo di Giannina stesa sul letto funebre, la testa adagiata su due cuscini sovrapposti, le mani raccolte in grembo che stringono un crocifisso. La bella figura giacente della fanciulla si conserva nella Fondazione Cavallini Sgarbi.
Se, come è stato notato, nella figura della donna in preghiera lo scultore sembra avere preso ispirazione dalla Santa Marcellina (1809-10) che il suo maestro Camillo Pacetti (1785-1826) aveva collocato in Sant’Ambrogio a Milano, e nel gruppo di Maria con il Bambino i riferimenti più prossimi sono con il rilievo di Canova Dar da mangiare agli affamati, a testimoniare la formazione marcatamente neoclassica del De Fabris, ciò che stupisce, e che colpì i contemporanei fin dalla presentazione del cenotafio a Roma nel 1823, è l’inattesa ripresa, tanto nei modelli compositivi quanto nello stile naturalistico, della scultura toscana del quattrocentesco, evidentissima nella figura della giovane adagiata, così da collocare precocemente il monumento in bilico tra neoclassicismo e purismo.
Il monumento era infatti stato descritto in uno stato avanzato di esecuzione nel 1823 dallo stampatore e letterato Filippo De Romanis (1788-1849)9 e dall’erudito Giovanni Gherardo De Rossi (1754- 1827), mentre l’anno seguente, ormai completato, venne visto nello studio romano dello scultore dal segretario - e instancabile cantore - del Canova, l’abate Melchiorre Missirini (1773-1849), che ne diede conto in un rilevante articolo apparso sul Diario Romano del gennaio 1824, prima che l’opera venisse spedita nel milanese agli inizi del 1825.
Giuseppe De Fabris, nativo di Nove, nei pressi di Bassano del Grappa, si trasferì verso il 1808 a Milano dove avvenne la sua vera e propria formazione, prima privatamente con Gaetano Monti di Milano (1751-1827), dal quale avrebbe appreso l’arte di eseguire ritratti in cera, e successivamente all’Accademia di Brera sotto la guida di Camillo Pacetti. A Milano, oltre a collabora all’interminabile cantiere del Duomo (San Napoleone Martire) eseguì nel 1814 per il conte Mellerio un grande rilievo raffigurante la Pietà, in cui gli evidenti modelli canoviani devono essere stati alimentati dalla conoscenza diretta delle due stele funerarie che il maestro aveva eseguito per lo stesso committente e che erano giunte da Roma proprio tra 1813 e 1814. Trasferitosi a Roma nel 1815 come pensionante dell’Accademia, De Fabris resterà nell’urbe fino al termine della vita, radicandosi profondamente nel mercato e nelle istituzioni artistiche cittadine. Tanto i primi successi milanesi quanto il suo inserimento nella vita artistica romana, sono legati alla protezione accordatagli da Giacomo Mellerio, che indirizzò il suo protetto a Canova e continuò a raccomandarglielo negli anni a venire. Stando alle parole di Paolo Mazio (1812-1868), appena concluso il percorso di studi lo scultore volle mandare un segno di riconoscenza al suo protettore milanese: “Il primo pensiero a cui il De Fabris, compiuto il corso dei suoi studi accademici, applicò l’animo, fu di esibire un monumento di sua gratitudine all’egregio conte Mellerio, e però di presente il mandò pregare che gli assegnasse un subbietto. E fu questo l’incontro di Ettore ed Andromaca co figliuoletto Astianatte presso la porta Scea... Eseguì questo gruppo il De Fabris in marmo carrarese di prima qualità e nella grandezza naturale”.
Pur non avendolo mai lavorato nello studio del maestro, Canova fu immediatamente benevolo nei confronti del conterraneo, facendogli ottenere alcune commissioni, prima fra tutte quella del Vaso con le nozze di Alessandro e Rossane (1817-18), offerto dalle Province Venete a Carolina Augusta di Baviera, in occasione delle sue nozze con l’imperatore Francesco I. Gli anni tra il 1817 e il 1821 sono quelli in cui De Fabris si dedicò quasi esclusivamente a soggetti mitologici; significativamente, dall’unica opera che oggi si conosce di questa fase, la Venere che scherza con Amore (1817), si possono già percepire i precoci tentativi dello scultore di allontanarsi dai più rigorosi modelli canoviani, per andare piuttosto ad attingere al repertorio rinascimentale.
Indice del particolare favore goduto dal De Fabris nell’ambito della Curia romana è la visita che nel 1821 papa Pio VII fece al suo studio per ammirare il colossale gruppo da poco formato in gesso di Milone crotoniate, esprimendosi in favore di una sua collocazione in Piazza del Popolo. Dal 1820, ancora su proposta di Canova, il De Fabris venne nominato tra i consiglieri di merito dell’Accademia di San Luca, diventandone al fine presidente nel biennio 1847-1849. Membro della Congregazione dei Virtuosi del Pantheon, a lui si deve, nel 1833, la riscoperta della tomba di Raffaello, della quale da tempo si era perduta memoria. Il suo impegno pubblico più importante è però quello di Direttore dei Musei Vaticani dal 1837.
Su invito di Leopondo Cicognara (1767-1834), il sommo teorico del Neoclassicismo, De Fabris fu invitato a fare parte di quel gruppo di scultori “allievi” del Canova, ai quali venne affidata l’esecuzione del monumento sepolcrale del maestro da collocare nella chiesa veneziana dei Frari. Un monumento che doveva, secondo le direttive del Cicognara, rifarsi al progetto che Canova stesso aveva pensato per il Monumento a Tiziano. Al De Fabris fu assegnata la malinconica figura del Genio, che egli modellò e formò a Venezia, nelle sale dell’Accademia dove era stata realizzata una piramide in legno grande al vero, in rapporto alla quale gli scultori modellavano le parti loro assegnate; lì il De Fabris si trovò a lavorare insieme ad Antonio Bosa (1780-1845), Bartolomeo Ferrari (1780-1844) e Luigi Zandomeneghi (1778- 1850). Il modello in gesso del Genio venne quindi spedito a Roma dove De Fabris lo tradusse in marmo (1826), avendo probabilmente cura di verificare il proprio lavoro sull’originale.
I primi anni Venti segnano un passaggio decisivo nell’opera di Giuseppe De Fabris, che di lì in avanti si dedicherà interamente a soggetti religiosi. Se non mancano opere sacre di carattere intimo e privato, quali la Madonna Addolorata (1821-1822)18 che oggi si conserva nella chiesa parrocchiale di Nove, il paese natale dell’artista, De Fabris farà della scultura funeraria il suo principale campo d’azione, divenendo il maestro favorito dalla gerarchia ecclesiastica, come dimostra ad esempio il Monumento al cardinale Francesco Fontana (1822), nella chiesa di San Biagio e Carlo ai Catinari, nel quale, allontanandosi fortemente dai modelli canoviani, il busto del defunto è inserito in una profonda nicchia.
del successo del De Fabris nei più alti circoli vaticani sono, oltre alla commissione da parte di papa Gregorio XVI del Monumento a papa Leone XII, realizzato per la basilica petrina tra il 1834 e il 1836, anche la colossale statua di San Pietro, da collocare nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura distrutta dall’incendio nella notte del 16 luglio 1823, a cui doveva fare da pendant il San Paolo di Adamo Tadolini (1788-1868); successivamente le due statue vennero collocate alla base della gradinata d’accesso alla Basilica di San Pietro.
Due sono poi le grandi commissioni assegnate a Giuseppe de Fabris dalla città di Roma: il Cenotafio a Canova (1828-32), per la sala maggiore della Protomoteca capitolina, e il Cenotafio a Torquato Tasso (1828-40), collocato nella chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo. È soprattutto in quest’opera, dalla lunghissima e travagliata vicenda esecutiva, che apprezziamo la maturazione delle idee già nel Monumento Mellerio: all’arco di impianto rinascimentale decorato da finissimi motivi a grottesca si coniuga la figura a tutto tondo del poeta seduto che, volgendosi e alzando lo sguardo, cerca l’ispirazione dal cielo; un’ispirazione tutta cristiana, espressa in una lingua figurativa ormai romantica, che ha i suoi prodromi nel cenotafio Mellerio, di cui il rilievo che presentiamo costituisce un eccezionale frammento superstite.
Roberto Cobianchi
Le tristi vicende familiari del conte Mellerio sono alla base della realizzazione dell’opera e ne determinarono la complessa iconografia. Con un linguaggio forbitamente neoclassico e un’assoluta pe- rizia tecnica Giuseppe De Fabris ha raffigurato ai piedi della Vergine l’ormai defunta moglie del conte, Elisabetta Castelbarco (1784-1808), e i tre figli della coppia morti in tenera età. La funesta circostanza che determinò la commissionare fu, però, l’improvvisa morte nel 1822, all’età di diciassette anni, di Giovannina, l’unica figlia rimasta al conte Giacomo Mellerio. Nel suo insieme, dunque, il monumento doveva commemorare la moglie e i quattro figli del committente.
In una lettera datata 16 febbraio 1825, Mellerio espresse al De Fabris la propria soddisfazione per il completamento dell’opera, che nell’allestimento originario della cappella si trovava a dialogare con due stele, lì collocate tra il 1813 e il 1814, che il conte aveva richieste ad Antonio Canova: una in ricordo della moglie e una di Giovanni Battista Mellerio, lo zio che lo aveva cresciuto dopo che era rimasto orfano e del quale aveva ereditato l’ingente patrimonio.
Sebbene il monumento di Giuseppe De Fabris sia stato smembrato e disperso, il progetto è documentato da alcuni disegni che permettono di ripercorrerne la genesi creativa e visualizzare l’insieme. Un primo studio prevedeva che su un lato del pannello, di formato verticale, una figura maschile seduta - abbigliata all’antica, ma da identificare con il conte Mellerio, sollevasse mestamente il lenzuolo da un letto vuoto, mentre sul lato opposto il lenzuolo veniva trattenuto dalla personificazione della Fede, una donna in piedi solennemente appoggiata ad una croce, chiaramente modellata sulla stessa virtù che Antonio Canova aveva scolpito per il Monumento a Clemente XIII in San Pietro. Nella parte alta del rilievo due angeli trasportavano in cielo la giovinetta defunta.
Un secondo disegno presenta la composizione così come verrà poi realizzata nel marmo: al rilievo in cui compaiono la Vergine con il Bambino e l’immagine idealizzata di Elisabetta Castelbarco in ginocchio che presenta i tre figlioletti, è anteposta la figura a tutto tondo di Giannina stesa sul letto funebre, la testa adagiata su due cuscini sovrapposti, le mani raccolte in grembo che stringono un crocifisso. La bella figura giacente della fanciulla si conserva nella Fondazione Cavallini Sgarbi.
Se, come è stato notato, nella figura della donna in preghiera lo scultore sembra avere preso ispirazione dalla Santa Marcellina (1809-10) che il suo maestro Camillo Pacetti (1785-1826) aveva collocato in Sant’Ambrogio a Milano, e nel gruppo di Maria con il Bambino i riferimenti più prossimi sono con il rilievo di Canova Dar da mangiare agli affamati, a testimoniare la formazione marcatamente neoclassica del De Fabris, ciò che stupisce, e che colpì i contemporanei fin dalla presentazione del cenotafio a Roma nel 1823, è l’inattesa ripresa, tanto nei modelli compositivi quanto nello stile naturalistico, della scultura toscana del quattrocentesco, evidentissima nella figura della giovane adagiata, così da collocare precocemente il monumento in bilico tra neoclassicismo e purismo.
Il monumento era infatti stato descritto in uno stato avanzato di esecuzione nel 1823 dallo stampatore e letterato Filippo De Romanis (1788-1849)9 e dall’erudito Giovanni Gherardo De Rossi (1754- 1827), mentre l’anno seguente, ormai completato, venne visto nello studio romano dello scultore dal segretario - e instancabile cantore - del Canova, l’abate Melchiorre Missirini (1773-1849), che ne diede conto in un rilevante articolo apparso sul Diario Romano del gennaio 1824, prima che l’opera venisse spedita nel milanese agli inizi del 1825.
Giuseppe De Fabris, nativo di Nove, nei pressi di Bassano del Grappa, si trasferì verso il 1808 a Milano dove avvenne la sua vera e propria formazione, prima privatamente con Gaetano Monti di Milano (1751-1827), dal quale avrebbe appreso l’arte di eseguire ritratti in cera, e successivamente all’Accademia di Brera sotto la guida di Camillo Pacetti. A Milano, oltre a collabora all’interminabile cantiere del Duomo (San Napoleone Martire) eseguì nel 1814 per il conte Mellerio un grande rilievo raffigurante la Pietà, in cui gli evidenti modelli canoviani devono essere stati alimentati dalla conoscenza diretta delle due stele funerarie che il maestro aveva eseguito per lo stesso committente e che erano giunte da Roma proprio tra 1813 e 1814. Trasferitosi a Roma nel 1815 come pensionante dell’Accademia, De Fabris resterà nell’urbe fino al termine della vita, radicandosi profondamente nel mercato e nelle istituzioni artistiche cittadine. Tanto i primi successi milanesi quanto il suo inserimento nella vita artistica romana, sono legati alla protezione accordatagli da Giacomo Mellerio, che indirizzò il suo protetto a Canova e continuò a raccomandarglielo negli anni a venire. Stando alle parole di Paolo Mazio (1812-1868), appena concluso il percorso di studi lo scultore volle mandare un segno di riconoscenza al suo protettore milanese: “Il primo pensiero a cui il De Fabris, compiuto il corso dei suoi studi accademici, applicò l’animo, fu di esibire un monumento di sua gratitudine all’egregio conte Mellerio, e però di presente il mandò pregare che gli assegnasse un subbietto. E fu questo l’incontro di Ettore ed Andromaca co figliuoletto Astianatte presso la porta Scea... Eseguì questo gruppo il De Fabris in marmo carrarese di prima qualità e nella grandezza naturale”.
Pur non avendolo mai lavorato nello studio del maestro, Canova fu immediatamente benevolo nei confronti del conterraneo, facendogli ottenere alcune commissioni, prima fra tutte quella del Vaso con le nozze di Alessandro e Rossane (1817-18), offerto dalle Province Venete a Carolina Augusta di Baviera, in occasione delle sue nozze con l’imperatore Francesco I. Gli anni tra il 1817 e il 1821 sono quelli in cui De Fabris si dedicò quasi esclusivamente a soggetti mitologici; significativamente, dall’unica opera che oggi si conosce di questa fase, la Venere che scherza con Amore (1817), si possono già percepire i precoci tentativi dello scultore di allontanarsi dai più rigorosi modelli canoviani, per andare piuttosto ad attingere al repertorio rinascimentale.
Indice del particolare favore goduto dal De Fabris nell’ambito della Curia romana è la visita che nel 1821 papa Pio VII fece al suo studio per ammirare il colossale gruppo da poco formato in gesso di Milone crotoniate, esprimendosi in favore di una sua collocazione in Piazza del Popolo. Dal 1820, ancora su proposta di Canova, il De Fabris venne nominato tra i consiglieri di merito dell’Accademia di San Luca, diventandone al fine presidente nel biennio 1847-1849. Membro della Congregazione dei Virtuosi del Pantheon, a lui si deve, nel 1833, la riscoperta della tomba di Raffaello, della quale da tempo si era perduta memoria. Il suo impegno pubblico più importante è però quello di Direttore dei Musei Vaticani dal 1837.
Su invito di Leopondo Cicognara (1767-1834), il sommo teorico del Neoclassicismo, De Fabris fu invitato a fare parte di quel gruppo di scultori “allievi” del Canova, ai quali venne affidata l’esecuzione del monumento sepolcrale del maestro da collocare nella chiesa veneziana dei Frari. Un monumento che doveva, secondo le direttive del Cicognara, rifarsi al progetto che Canova stesso aveva pensato per il Monumento a Tiziano. Al De Fabris fu assegnata la malinconica figura del Genio, che egli modellò e formò a Venezia, nelle sale dell’Accademia dove era stata realizzata una piramide in legno grande al vero, in rapporto alla quale gli scultori modellavano le parti loro assegnate; lì il De Fabris si trovò a lavorare insieme ad Antonio Bosa (1780-1845), Bartolomeo Ferrari (1780-1844) e Luigi Zandomeneghi (1778- 1850). Il modello in gesso del Genio venne quindi spedito a Roma dove De Fabris lo tradusse in marmo (1826), avendo probabilmente cura di verificare il proprio lavoro sull’originale.
I primi anni Venti segnano un passaggio decisivo nell’opera di Giuseppe De Fabris, che di lì in avanti si dedicherà interamente a soggetti religiosi. Se non mancano opere sacre di carattere intimo e privato, quali la Madonna Addolorata (1821-1822)18 che oggi si conserva nella chiesa parrocchiale di Nove, il paese natale dell’artista, De Fabris farà della scultura funeraria il suo principale campo d’azione, divenendo il maestro favorito dalla gerarchia ecclesiastica, come dimostra ad esempio il Monumento al cardinale Francesco Fontana (1822), nella chiesa di San Biagio e Carlo ai Catinari, nel quale, allontanandosi fortemente dai modelli canoviani, il busto del defunto è inserito in una profonda nicchia.
del successo del De Fabris nei più alti circoli vaticani sono, oltre alla commissione da parte di papa Gregorio XVI del Monumento a papa Leone XII, realizzato per la basilica petrina tra il 1834 e il 1836, anche la colossale statua di San Pietro, da collocare nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura distrutta dall’incendio nella notte del 16 luglio 1823, a cui doveva fare da pendant il San Paolo di Adamo Tadolini (1788-1868); successivamente le due statue vennero collocate alla base della gradinata d’accesso alla Basilica di San Pietro.
Due sono poi le grandi commissioni assegnate a Giuseppe de Fabris dalla città di Roma: il Cenotafio a Canova (1828-32), per la sala maggiore della Protomoteca capitolina, e il Cenotafio a Torquato Tasso (1828-40), collocato nella chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo. È soprattutto in quest’opera, dalla lunghissima e travagliata vicenda esecutiva, che apprezziamo la maturazione delle idee già nel Monumento Mellerio: all’arco di impianto rinascimentale decorato da finissimi motivi a grottesca si coniuga la figura a tutto tondo del poeta seduto che, volgendosi e alzando lo sguardo, cerca l’ispirazione dal cielo; un’ispirazione tutta cristiana, espressa in una lingua figurativa ormai romantica, che ha i suoi prodromi nel cenotafio Mellerio, di cui il rilievo che presentiamo costituisce un eccezionale frammento superstite.
Roberto Cobianchi
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Canova e il dolore, Le stele Mellerio, Il rinnovamento della rappresentazione sepolcrale, 5 maggio - 8 gennaio 2023, Museo Gypsotheca Antonio Canova, Antiga EdizioniPublications
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